mercoledì 4 settembre 2013

Il brigante maremmano! Domenico Tiburzi meglio conosciuto come "Domenichino"!

Domenico Tiburzi
Il brigante maremmano! Domenico Tiburzi meglio conosciuto come "Domenichino", nato a Cellere il 28 maggio 1836 e morto a Capalbio il 24 ottobre 1896 è stato un brigante italiano o meglio un brigante tutto maremmano! Figlio di Nicola Tiburzi e Lucia Attili, era meglio noto con il nomignolo di "Domenichino", fu il più celebre brigante della Maremma, al punto tale da divenire una leggenda tra gli abitanti della provincia di Grosseto.
Domenico Tiburzi incarna l'esempio di criminalità nata come risposta alle ingiustizie della società. Dai grandi proprietari esigeeva la "tassa del brigantaggio" e in cambio garantiva protezione agli stessi proprietari terrieri in pratica il pizzo.
Divenne un vero e proprio eroe popolare, il brigante buono e soccorrevole che uccideva "perché fosse rispettato il comando di non uccidere". Eliminò, infatti, molti briganti che si erano distinti per la loro prepotenza e cattiveria, quando capì che non sarebbe riuscito con la persuasione a ridurli a più miti comportamenti. Egli sapeva ben distinguere bene la legge dalla giustizia e lui stesso si era nominato protettore della giustizia anche contro la legge dello stato.
Si sposò con Veronica dell'Aia che gli dette due figli. La sua fedina penale si sporcò molto presto:
A soli sedici anni fu incluso in un elenco di ricercati per furto per poi arrivare a diciannove anni dove subì un processo per lo stesso reato, ma venne assolto. A ventisette anni venne arrestato per aggressione e ferimento, poi rimesso in libertà per "desistenza della parte offesa".Nel 1867 uccise il guardiano del marchese Guglielmi, tale Angelo Del Bono, colpevole di avergli affibbiato una multa di 20 lire, uno sproposito per quei tempi, infatti basti pensare che è come se oggi per un paio di calze rubate in un supermercato si facessero pagare a un poveraccio oltre 20.000 euro e tutto perché era andato a raccogliere un fascio d'erba nel campo del marchese. Dopo aver passato la notte insonne la mattina seguente prese la fatal decisione per il povero ma severo guardiano. Ciò scaturì dal fatto che prima dell'Unità d'Italia furono cambiate certe leggi che permettevano la sopravvivenza ai contadini più poveri raccogliendo le spighe cadute dopo la mietitura. Dopo il misfatto si diede alla macchia, vero regno del brigantaggio di quei tempi, e così con la latitanza ebbe inizio la sua storia da bandito.
Da "bravo" brigante era diventato un Robin Hood dei nostri tempi, aveva istituito una tassa sul brigantaggio cui dovevano corrispondere i nobili ed i ricchi possidenti terrieri che tenevano in pugno l'economia agricola della zona; per gli inadempienti la punizione era l'incendio, tipico mezzo di reazione antipadronale dei braccianti maremmani.
Del denaro ricavato il buon Tiburzi ne donava una parte ai familiari dei meritevoli briganti uccisi e con un'altra pagava il sostentamento per i più poveri e per i contadini e gli artigiani che non riuscivano a sbarcare il lunario. D'altronde aveva uno spirito umanitario, anche se un po' bizzarro.
Il suo ultimo omicidio fu quello di Raffaele Gabrielli, fattore del marchese Guglielmi, il 22 giugno 1890 nelle campagne di Montalto di Castro perché non aveva avvertito i briganti che ci sarebbe stata una perlustrazione dei carabinieri. Il Tiburzi ed il Fioravanti uscirono dalla macchia e chiamarono ad alta voce il fattore che stava facendo colazione insieme ai mietitori e ai suoi collaboratori. Portato a pochi metri di distanza il Tiburzi gli sparò alla testa sotto lo sguardo atterrito dei mietitori.
Nel 1893 il governo, presieduto da Giovanni Giolitti, ordinò alle autorità di intervenire energicamente per la cattura di tutti i briganti. In una retata ne furono presi oltre 150, processati poi a Viterbo, ma Tiburzi riusci a farla franza continuando a fare il brigante.
In breve tempo furono effettuati molti arresti che coinvolgevano persone di ogni ceto sociale: nobili, contadini, pastori, tutti accusati di associazione a delinquere per aver sottratto i latitanti alle perlustrazioni dei carabinieri e quindi contribuito a creare quell'invulnerabile muro di omertà che avvolgeva e proteggeva i briganti della Maremma. Ma i più erano contadini e pastori, alle cui famiglie venne a mancare, con il loro arresto, l'unico mezzo di sostentamento. Giolitti stesso si indignò per la situazione venutasi a creare in Maremma.
L'azione delle forze dell'ordine portò il brigantaggio maremmano, e il Tiburzi in particolare, agli onori della popolarità nazionale e da quel momento la caccia al bandito divenne spietata.
Nel 1896, presso Capalbio, fu ucciso dopo 24 anni di latitanza dai militari del capitano Michele Giacheri, ufficiale dotato di grande esperienza nel settore. Non a caso il regno di Tiburzi durò molto a lungo, grazie proprio agli equilibri che era riuscito a stabilire con i potentati locali, evitando accuratamente di scontrarsi con la polizia ("figli di mamma" come li chiamava lui) e tutelando gli interessi di determinati possidenti, a cui garantiva protezione non solo dagli altri briganti, ma anche da ogni altro genere di problemi, dietro un regolare compenso, come fosse una paga, un premio assicurativo o una tassa sulla salute.
Accadde una piovosa notte d'autunno, tra il 23 ed il 24 di ottobre, tre militi, il brigadiere Demetrio Giudici e i carabinieri Raffaele Collecchia ed Eugenio Pasquinucci, per un puro caso, cioè per non aver trovato alla casa del Cunicchio del pane per rifocillarsi, proseguirono verso Capalbio e passando in località "le Forane" videro il lume acceso nella casa del colono Franci, dove abitavano assieme al padre anche le due belle figlie con le quali il Tiburzi e il Fioravanti pareva se la intendessero. I due fuorilegge avevano trascorso la serata cenando con le migliori provviste assieme ai familiari del colono, e soprattutto "Domenichino" aveva ecceduto con le libagioni, infatti sulla tavola, insieme ai racconti del brigante, dispensati ai commensali come un vero e osannato patriarca, si allinearono molti fiaschi di vigoroso vino maremmano. Improvvisamente, all'avvicinarsi dei gendarmi, i cani iniziarono ad abbaiare furiosamente, e al "Chi va là" del Tiburzi parte lo scontro a fuoco: i due briganti potevano brandire ottimi fucili a retrocarica, fucili a canne mozze, pugnali e varie rivoltelle. Appena spalancata la porta il primo che uscì allo scoperto per fuggire fu il Fioravanti che esplose un paio di fucilate nell'ombra, per coprirsi la fuga nelle tenebre con l'effetto sorpresa. Il Tiburzi invece, più anziano e lento non riuscì a scappare come il Fioravanti, ma questo non gli impedì di lasciare andare anch'esso due fucilate verso quella che credette la figura di un gendarme: l'infallibile mira del Re del Lamone, annebbiata dal vino e dagli anni questa volta colpì, come ultimo bersaglio di una storia leggendaria, un orcio di terracotta, che andò si in frantumi, ma espose al contempo il brigante ad una più rapida individuazione dei carabinieri, i quali risposero al fuoco, crivellandolo di colpi alle gambe e al torace, e lasciandolo ucciso all'istante. Domenico Tiburzi cadde, ma lo fece impugnando il suo scettro di indiscusso Re della Macchia: con il fucile tra le mani. Il Fioravanti riuscì invece come detto a fuggire con un formidabile balzo, immacchiandosi nelle tenebre impenetrabili della campagna maremmana di fine ottocento, come fosse stato un cinghiale braccato dalla canizza, e scomparve in un battibaleno, sottraendosi agli spari furiosi dei gendarmi e prima che qualcuno potesse solo tentare o anche pensare di acciuffarlo.
Sembra che l'unica fotografia che si trovi del brigante Domenico Tiburzi sia stata fatta dopo la sua morte, con il corpo legato al tronco di un albero per tenerlo in piedi e gli stecchini agli occhi per dare l'illusione che fosse ancora vivo.
Di Tiburzi si conoscono i delitti, quelli che risultano negli archivi. Ma nessun archivio riporta, di un brigante, le manifestazioni positive; altrimenti non si spiegherebbe l'ammirazione da parte di tanta gente del popolo. Infatti il prete voleva negare al brigante il funerale e la sepoltura in terra consacrata ma la ostinata popolazione di Capalbio, sdegnata da tale decisione, ha esatto per il paladino dei diritti dei più deboli un’onorata sepoltura in terreno consacrato. Si arrivò così ad un compromesso: "mezzo dentro e mezzo fuori dal cimitero". Quindi si scavò la fossa proprio dove si apriva il cancello d'ingresso originario e gli arti inferiori restarono dentro, come vuole la tradizione, mentre la testa, il torace (e quindi l'anima) rimasero fuori.

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